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E infine è finita: solo tre dei sette samurai sono sopravvissuti alla carneficina: i loro compagni sono tutti caduti vittime dei fucili. Kanbei e Shichiroji sono allo stesso tempo increduli e fatalisticamente rassegnati al loro destino, che è quello del superstite preservato solo per poter perdere in futuro una nuova battaglia.

Il giovane Katsushiro, uscito dal suo battesimo del sangue, ha una reazione imprevedibile eppure frequente: non si rassegna alla fine della battaglia. Vorrebbe ancora altri predoni come bersaglio, per esorcizzare le sue paure, la sua smania di vendetta, per sfogare la tensione dell'interminabile attesa.

 

 

 

 

 

I samurai stanno ormai per congedarsi dal villaggio: è arrivato il tempo della semina del nuovo raccolto e tutti gli abitanti partecipano allegramente, a tempo di musica, all'opera.

Kanbei osserva da lontano, riflette e sente il bisogno di confidare a Shichiroji quanto ha concluso. Contrariamente alle apparenze, anche questa volta hanno perso la loro battaglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I veri vincitori sono loro, i contadini, questi strani esseri umani che hanno paura quando c'è il sole ed hanno paura quando c'è la pioggia

Eppure, inspiegabilmente, mostrano più costanza e più applicazione nelle loro piccole cose di tutti i giorni, di quanta ne metta il più valoroso dei samurai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Termina anche l'impossibile amore tra Katsushiro e una giovane contadina: i loro mondi sono ugualmente belli ed affascinanti, ma non ancora comunicanti, se non in circostanze eccezionali, non ripetibili e purtroppo non desiderabili per il bene comune.

Si diranno addio con uno sguardo, senza nulla dire, accanto al cimitero su cui svettano le tombe dei quattro valorosi samurai che hanno dato la loro vita per il villaggio, in cambio di pochi pugni di riso.